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DIRITTO
Costituisce oggetto del giudizio il provvedimento con cui la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici di Verona ha negato al sig. A. M., ingegnere civile, l’autorizzazione al subentro nella direzione dei lavori, oggetto della concessione edilizia n. 29/01, su un immobile vincolato sottoposto alla tutela ex d. lgs. 490/99 (ora, d. lgs. 42/04), affermando l’esclusiva competenza degli architetti ex art. 52, co. 2, del r.d. 22.10.1925 n. 2537, che reca una riserva a favore degli architetti per "le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico" e per "il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20 giugno 1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti".
Le parti ricorrenti hanno svolto le principali censure osservando che la direttiva CEE 10 giugno 1985 n. 384/85 (cui l’Italia ha dato attuazione con il d. lgs. 27 gennaio 1992 n. 129, modificato dall’art. 16 della legge 3.2.2003 n. 14) ha introdotto norme di reciproco riconoscimento, tra gli Stati membri, di diplomi per agevolare l’effettivo esercizio dei diritti di stabilimento e di libera prestazione dei servizi nel settore professionale dell’architettura (definita dall’art. 1 della direttiva).
Il riconoscimento reciproco di titoli professionali, con norme di ravvicinamento delle legislazioni nazionali, nel settore dell’architettura è inteso a garantire la libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi all’interno degli stati membri (ai sensi dell’art. 50 del Trattato stesso, i servizi comprendono anche le attività delle libere professioni).
L’obbligatorio riconoscimento dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli in ciascuno Stato membro è disciplinato, con norme puntuali, dagli artt. 7, 10 ed 11 della direttiva: in particolare, la lettera g) dell’art. 11 stabilisce espressamente che, nel regime transitorio, i diplomi da riconoscere per l’Italia sono:
" - i diplomi di laurea in architettura à accompagnati dal diploma di abilitazione all’esercizio indipendente della professione di architetto à una volta che il candidato abbia sostenuto con successo à l’esame di stato che abilita all’esercizio indipendente della professione di architetto (dott. architetto);
- i diplomi di laurea in ingegneria nel settore della costruzione civileà accompagnati dal diploma di abilitazione all’esercizio indipendente di una professione nel settore dell’architettura à una volta che il candidato abbia sostenuto con successo à l’esame di stato che abilita all’esercizio indipendente della professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in ingegneria civile);"
Ai fini dell’accesso alle attività del settore dell’architettura, nella presente controversia si è posto il problema se debba essere indifferentemente riconosciuto lo stesso effetto ai due anzidetti titoli: architetto ed ingegnere civile.
In particolare, si è posto il problema se continui ad applicarsi l’art. 52, co. 2, del r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537, qualora sia ritenuto contrastante con la fonte sovranazionale (la direttiva 384/85) ed, in tal caso, se quest’ultima debba essere direttamente applicata quale esclusiva disciplina della materia. Cioè, la disciplina contenuta nella direttiva, se ritenuta "self executing" (perché reca una disposizione incondizionata e sufficientemente precisa, e quindi immediatamente applicabile e non abbisognevole di svolgimento mediante disposizioni attuative nel nostro ordinamento) sarebbe direttamente applicabile.
Occorre aggiungere che la direttiva comunitaria ha trovato attuazione in Italia col d. lgs. 129/92 il quale prevedeva, al comma 2 dell’art. 1, che "Restano in vigore le disposizioni che regolano l'esercizio in Italia delle attività di cui al comma 1 da parte di persone in possesso di titolo professionale idoneo in base alle norme vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto."
Tale disposizione sembrava avallare la compatibilità con la direttiva CEE della riserva recata dall’art. 52 co. 2, del r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537, ma essa è stata successivamente abrogata dall’art. 16 della L. 14/03, cosicché il d. lgs. 129/92 si appalesa ormai del tutto ininfluente ai fini della soluzione della questione, anche perché non reca alcuna disposizione relativa all’art. 11, lett. g, della direttiva 384/85.
Dunque, se vi fosse l’anzidetto contrasto dell’art. 52, co. 2, del r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537 con la direttiva 384/85, la prevalenza della fonte normativa comunitaria su quella nazionale, sancita dall'art. 249 del Trattato istitutivo della CEE, sarebbe assicurata con la disapplicazione della fonte nazionale, non solo da parte degli organi giurisdizionali, ma anche da parte della Pubblica Amministrazione (vd., ex multis, le sentenze della Corte di Giustizia CEE 22 giugno 1989 in causa 103/88, F.lli Costanzo S.p.a., e 19 gennaio 1992, Becker, in causa 8/81; vd. inoltre Cons. Stato, Sez. V, 6 aprile 1991 n. 452 e, sull’effetto di disapplicazione, Corte costituzionale, 4-11 luglio 1989 n. 389).
Al riguardo, erano già intervenute due pronunce di questo Tribunale: la prima (sez. I, 9 marzo 1999 n. 307) favorevole alla disapplicazione dell’art. 52 r.d. 2537/25 e la seconda (sez. I, 28 giugno 1999 n. 1098) contraria, quest’ultima sulla base anche delle considerazioni espresse in un parere del Consiglio di Stato (sez. II, 23 luglio 1997 n. 386).
Per risolvere definitivamente la questione, nuovamente sollevata col presente ricorso, questo Tribunale con ordinanza n. 4236/01 del 24 ottobre 2001 ha ritenuto di sospendere il giudizio e di rinviare gli atti alla Corte di giustizia delle comunità europee per la pronuncia pregiudiziale - ex art. 234 Trattato CE - sull’interpretazione degli artt. 10 e 11 della direttiva n. 384/85.
Si può aggiungere che anche il Consiglio di Stato, con la recente ordinanza della VI sezione n. 2379/05, ha rimesso alla Corte di giustizia CE la stessa questione.
In particolare, questo Tribunale ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire:
a) se la direttiva 10.6.1985 n. 384 del Consiglio si debba interpretare nel senso che, proprio perché pone norme di armonizzazione minima, le sue disposizioni debbono essere applicate in fattispecie puramente interne;
b) se le disposizioni di cui agli artt. 10 e 11 della predetta direttiva - nelle quali si precisa che il titolo di ingegnere civile è equiparato, ai fini dell'accesso ai servizi nel settore professionale dell'architettura, a quello di architetto - impongano ad uno Stato membro di non escludere dall'accesso alle prestazioni in questione i propri laureati che seguano un corso di laurea comportante un percorso di studi come quello seguito dai laureati in ingegneria civile in Italia;
c) se, infine, il principio di uguaglianza, in quanto principio generale dell'ordinamento comunitario, imponga, stante la sostanziale analogia del percorso di studi e della formazione professionale degli architetti e degli ingegneri civili, di ammettere comunque alle attività riservate agli architetti anche i laureati in ingegneria civile.
Con ordinanza del 5 aprile 2004 la Corte di giustizia delle comunità europee (IV sez.) si è pronunciata sulla questione statuendo, nel dispositivo, che "Quando si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato membro, né la direttiva del Consiglio 10 giugno 1985, 85/384/CEE, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi - in particolare i suoi artt. 10 e 11, lett. g) - né il principio della parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce, in linea di principio, l’equivalenza dei titoli di architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili vincolati appartenenti al patrimonio artistico".
Vale a dire, la Corte ha ritenuto che la questione non ha rilevanza nel diritto comunitario poiché è configurabile come un "situazione puramente interna".
Il difensore dei ricorrenti ha obiettato che la Corte non avrebbe fornito una sufficiente risposta ai quesiti che le erano stati sottoposti, che quindi rimarrebbero i dubbi interpretativi sul contrasto della normativa italiana con la fonte sovranazionale ed ha perciò chiesto che sia disposto un nuovo rinvio alla Corte ex art. 234 Trattato CE.
Ma il Collegio non condivide tale opinione e ritiene invece che la risposta fornita dalla Corte sia sufficientemente chiara ed esaustiva.
Invero, il pensiero della Corte consta di due passaggi logici: nel primo, viene posta la distinzione tra il reciproco riconoscimento dei titoli di formazione del settore dell'architettura (disciplinato dalla direttiva 85/384) ed il regime giuridico di accesso all’attività propria di tale settore, che resta estraneo - secondo la Corte - alla direttiva 85/384, cosicché esso ricade nell'ambito della legislazione nazionale dello Stato membro il quale, comunque, non è tenuto a porre i titoli di formazione indicati dalla direttiva 85/384 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso all’attività di architetto in Italia.
La Corte, infatti, afferma che: "45. La direttiva 85/384 non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione. Dal nono "considerando" di tale direttiva risulta infatti che il suo art. 1, n. 2, non intende fornire una definizione giuridica delle attività del settore dell’architettura. Spetta alla normativa nazionale dello Stato membro ospitante individuare le attività in tale settore. 46. La direttiva 85/384 ha ad oggetto solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura, come emerge dal secondo "considerando" della detta direttiva. Essa prevede inoltre un regime transitorio diretto, in particolare, a preservare i diritti acquisiti dai possessori di titoli già rilasciati dagli Stati membri anche qualora tali titoli non soddisfino i detti requisiti minimi. 47. Inoltre, sebbene l’art. 11, lett. g), della direttiva 85/384 menzioni, per l’Italia, i diplomi di "laurea in architettura" e di "laurea in ingegneria" come titoli che beneficiano del regime transitorio previsto dall’art. 10 di tale direttiva, ciò è solo al fine di assicurare il riconoscimento di tali diplomi da parte degli altri Stati membri, e non allo scopo di armonizzare, nello Stato membro interessato, i diritti conferiti da tali diplomi per quanto riguarda l’accesso alle attività di architetto. 48. Allo stesso modo, anche volendo ammettere che i due citati diplomi rispondano ai requisiti in materia di formazione di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva 85/384 e debbano pertanto essere riconosciuti dagli altri Stati membri ai sensi dell’art. 2 della stessa direttiva, quest’ultima, di per sé, non impone allo Stato membro interessato di porre tali diplomi su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alle attività di architetto in Italia".
Tuttavia, nel secondo passaggio logico la Corte richiama una propria precedente pronuncia riguardante la stessa direttiva 85/384 (sent. 23.11.2000 nella causa C-421/98, Commissione c. Spagna).
In quest’ultima pronuncia, che il difensore dei ricorrenti invoca a proprio favore, si trattava di una norma dell’ordinamento spagnolo che vietava ai titolari di un diploma di architettuta rilasciato da un altro Stato membro di esercitare in Spagna competenze diverse da quelle che avrebbero potuto esercitare nel loro paese, salvo che non avessero agito in collaborazione con altro professionista abilitato ad esercitare tali competenze in Spagna.
In quel caso la Corte ritenne che la Spagna fosse venuta meno all’obbligo di rispetto della direttiva 85/384.
Il pensiero della Corte era espresso in questi termini: 35. Il punto essenziale di tale mutuo riconoscimento si trova espresso nell'art. 2 della direttiva, a termini del quale ogni Stato membro è tenuto a riconoscere i diplomi, certificati ed altri titoli conseguiti durante un ciclo di formazione rispondente ai requisiti di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa, rilasciati ai cittadini degli Stati membri dagli altri Stati membri, e ad attribuire loro, sul proprio territorio, per quanto riguarda l'accesso alle attività abitualmente svolte in base al titolo professionale di architetto, lo stesso effetto dei diplomi, certificati ed altri titoli dal medesimo rilasciatià"37. Dagli artt. 2 e 10 della direttiva emerge che, quando un'attività è abitualmente svolta da architetti titolari di un diploma rilasciato dallo Stato membro ospitante, un architetto migrante titolare di un diploma, certificato o altro titolo ricompreso nella sfera di applicazione della direttiva deve poter parimenti accedere a tale attività, ancorché i propri diplomi, certificati o altri titoli non implichino necessariamente un'equivalenza sostanziale con riguardo alla formazione conseguita. 38. Infatti, se è pur vero che, come sostenuto dal governo spagnolo, compete al legislatore nazionale dello Stato membro ospitante definire l'ambito di attività della professione dell'architetto quando una determinata attività sia considerata da uno Stato membro ricompresa nel detto ambito, l'esigenza del mutuo riconoscimento implica che gli architetti migranti debbano poter parimenti accedere a tale attività.à43. Orbene, la direttiva stabilisce le misure da adottare quando non sussista equivalenza sostanziale tra la formazione conseguita nello Stato membro di origine o di provenienza e quella fornita nello Stato membro ospitante. 44. Infatti, a termini dell'art. 16, n. 2, della direttiva, quando il titolo di formazione dello Stato membro di origine o di provenienza possa essere confuso nello Stato membro ospitante con un titolo che richieda, in detto Stato, una formazione complementare che il beneficiario della direttiva non ha compiuto, lo Stato membro ospitante può prescrivere che il beneficiario stesso usi il titolo di formazione dello Stato membro di origine o di provenienza in una formula adeguata che gli verrà indicata dallo Stato ospitante medesimo".
La Corte, a conclusione del citato secondo passaggio logico, non nega che dal divieto, per gli ingegneri civili che hanno conseguito il titolo in Italia, di accedere all’attività di cui all’art. 52 r.d. 2537/25 possa derivare una discriminazione al rovescio, ma risolve il problema intepretativo assumendo che si tratta di una questione puramente interna all’ordinamento italiano, talché non emerge un contrasto rilevante con la fonte sovranazionale né con il principio di parità di trattamento da applicarsi ai professionisti migranti di altri stati membri.
L’interpretazione data dalla Corte alla direttiva 85/384 è perciò nel senso che essa non ha rilevanza interna ma solo "transfrontaliera".
Questo secondo passaggio logico è espresso nei termini seguenti:
"50. Tale direttiva non osta quindi ad una disciplina nazionale come la normativa italiana di cui alla causa principale, nei limiti in cui quest'ultima è diretta a definire le attività riservate alla professione di architetto. La detta direttiva richiede tuttavia che gli architetti i cui titoli devono essere riconosciuti in conformità ad essa abbiano anch'essi accesso a tali attività, indipendentemente dalla questione se il loro titolo dia accesso ad esse nello Stato membro che ha rilasciato il titolo (v., in questo senso, sentenza 23 novembre 2000, causa C421/98, Commissione/Spagna, Racc. pag. 1-10375, punto 45).
La corte prosegue osservando che "51. Certo, dagli artt. 10 e 11, lett. g), della direttiva 85/384 emerge che i titoli di cui alla fattispecie della causa principale, compresa la "laurea in ingegneria" devono essere riconosciuti negli Stati membri diversi dall'Italia e devono ivi dare accesso alle attività rientranti nel settore della professione di architetto come definito nella legislazione di ognuno di loro; tuttavia, la causa principale verte unicamente sull'esercizio di tali attività in Italia. 52. E' vero che, come sostiene la Commissione (v. punto 33 di questa ordinanza), ne può derivare una discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia non hanno accesso, in tale Stato membro, all'attività di cui all'art. 52, secondo comma, del Regio decreto n. 2537/25, mentre tale accesso non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'art. 7 della direttiva 85/384 o in quello di cui all'art.11 della detta direttiva. 53. Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte emerge che, quando si tratta di una situazione puramente interna come quella di cui alla causa principale, il principio della parità di trattamento sancito dal diritto comunitario non può essere fatto valere. In una situazione del genere spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere eliminata (v. sentenza Steen, citata, punti 9 e 10). Al riguardo, potrebbero risultare pertinenti i principi di diritto nazionale richiamati dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (v. punti 35-40 della presente ordinanza). 54. Di conseguenza, occorre risolvere le questioni sollevate nel senso che, quando si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt. 10 e 11, lett. g) -né il principio della parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce, in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili vincolati appartenenti al patrimonio artistico."
In conclusione sul punto, la Corte ha esaurientemente risposto ai quesiti sollevati da questo Tribunale assumendo che il problema del contrasto va configurato come "questione puramente interna" e che perciò: a) la direttiva non va applicata alla fattispecie perché le relative disposizioni non impongono all’Italia di non escludere gli ingegneri civili che hanno conseguito in Italia il proprio titolo dall’attività di cui all’art. 52, co 2, r.d. 2537/25 (le impongono però di non escludere gli ingegneri civili o possessori di analoghi titoli conseguiti in altri Stati membri); c) nemmeno il principio comunitario di parità di trattamento può essere fatto valere trattandosi di "situazione puramente interna".
Non vi è quindi ragione di sottoporre nuovamente la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, come richiesto dal difensore dei ricorrenti, nell’assunto che la pronuncia sia lacunosa ed incompleta.
Alla luce della pronuncia della Corte discende che la citata direttiva 85/384 non può essere interpretata secondo la pretesa dei ricorrenti e cioè nel senso della sua incompatibilità con l'articolo 52, secondo comma, del Regio decreto n. 2537/1925.
Il difensore dei ricorrenti ha allora eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 52, co. 2, r.d. 2537/25, con riferimento agli artt. 3, 41 e 97 Cost., osservando altresì che la recente legge comunitaria 2004 (legge 18.4.2005 n. 62) all’art. 2, co. 1, lett. h, ha introdotto il principio (da applicarsi nell’emanazione dei decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comunitarie comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B, tra cui non rientra quella in controversia, ma che sarebbe espressione di un principio più generale) secondo cui tali decreti legislativi "assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell'Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l'insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l'esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri".
L’art. 52, co. 2, r.d. 2537/25 sarebbe dunque incostituzionale nella parte in cui tale norma non è applicabile agli ingegneri civili o ai possessori di un titolo analogo rilasciato in altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell’elenco redatto ai sensi dell’art. 7 della direttiva 85/384 o in quello di cui all’art. 11 della direttiva, mentre rimane applicabile agli ingegneri civili che hanno conseguito il loro titolo in Italia.
In effetti, la stessa Corte di Giustizia (richiamando il proprio precedente 16.6.1994 causa c-132/93 Steen) ammette che tale situazione, pur irrilevante nell’ambito comunitario perché configurabile come "situazione puramente interna", potrebbe dar luogo ad una discriminazione al rovescio, nel qual caso "spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere eliminata".
La questione di costituzionalità così posta appare rilevante e non manifestamente infondata.
Invero, se la disparità di trattamento tra ingegneri civili italiani e titolari di analoghi titoli riconosciuti equivalenti secondo la direttiva 85/384 è irrilevante per il diritto comunitario, non sembra esserlo per il diritto costituzionale italiano.
Tale discriminazione non può, infatti, essere risolta mediante l'assoggettamento delle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'art. 7 della direttiva 85/384 o in quello di cui all'art. 11 della detta direttiva 85/384, alla medesima restrizione che grava sugli ingegneri civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia e che pure sono menzionati nella lett. g dell’art. 11 della citata direttiva.
Infatti, come emerge dalla citata sentenza della Corte di giustizia CE (causa 421/98 - Commissione c. Spagna) riguardante anch’essa la direttiva 85/384, ciò contrasterebbe con gli artt. 2 e 10 della direttiva (nonché, aggiunge il Collegio, con il principio comunitario di libera circolazione).
Del resto, l’art. 3, co. 1, del d. lgs. 129/92 che ha attuato la direttiva nell’ordinamento italiano stabilisce che "Il riconoscimento attribuisce ai diplomi, certificati ed altri titoli, la stessa efficacia dei diplomi rilasciati dallo Stato italiano per l'accesso all'attività nel settore dell'architettura e per il suo esercizio con il titolo professionale di architetto."
Sembra, quindi, ingiustamente discriminatorio (con violazione del postulato fondamentale dell’art. 3 Cost.) impedire agli ingegneri civili italiani l’accesso ad attività professionali che l’Amministrazione non potrebbe invece vietare nei confronti di ingegneri civili (o possessori di titoli analoghi) di altri Stati membri.
Poiché il Collegio non ravvisa la presenza di altre speciali ragioni, costituzionalmente fondate, che giustifichino una tale restrizione, il sospetto di incostituzionalità della norma di legge che produce l’anzidetta discriminazione a rovescio non può essere superato.
Il divieto di discriminazione altro non è che l'espressione specifica del principio generale di uguaglianza il quale impone che situazioni comparabili non vengano trattate in modo diverso, a meno che una differenziazione non sia obiettivamente giustificata.
Il principio di non discriminazione opera, infatti, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi comunitari, il che vale a dire che, nel giudizio sul rispetto del principio costituzionale di eguaglianza ex art. 3 Cost., non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l'applicazione del diritto comunitario è suscettibile di provocare (cfr.: Corte cost., 30.12.1997 n. 443).
La lesione del principio di non discriminazione si riverbera poi sulla lesione dell’art. 41 Cost. relativamente all’accesso ad un’attività economica professionale.
Sotto gli anzidetti profili, può quindi ravvisarsi un contrasto con gli artt. 3 e 41 della Costituzione. Il giudizio va pertanto sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, seconda sezione, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.52, co. 2, r.d. 22.10.1925 n. 2537 nella parte in cui reca una riserva a favore degli architetti che non è applicabile ai titolari di diplomi di ingegneria civile o di titoli analoghi, rilasciati in altro Stato membro della Comunità europea, qualora tali titoli siano menzionati nell’elenco redatto ai sensi dell’art. 7 della direttiva 85/384 o in quello di cui all’art. 11 della direttiva stessa, mentre rimane applicabile ai titolari di diploma di laurea in ingegneria civile di cui all’art. 11, lett. g, della direttiva medesima.
Sospende quindi il giudizio ed ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Dispone che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Così deciso in Venezia, in camera di consiglio, addì 14 luglio 2005.
T.A.R. Veneto - II Sezione n.r.g. 1994/01
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